“La Streif è la pista più pericolosa al mondo e lo sai. Il confine tra la sconfitta e la vittoria, tra il successo, lo stare bene al traguardo, e una caduta è molto, molto sottile”.
Didier Cuche
Parlare della Streif significa narrare una storia fatta più di dolori che di gioie.
E non si tratta certo di dolori dell’anima, perché, se nel mondo esistono delle gare dove realmente non conta in che posizione superi il traguardo, una di quelle è sicuramente la Discesa libera di Kitzbühel.
La Streif è una pista che non perdona la minima sbavatura e se vuoi superare indenne la sua – forse eccessiva – durezza devi rispettarla senza averne timore, ma contemporaneamente devi sempre attaccarla.
E sta tutto nel cercare questo equilibrio la sfida della Discesa per eccellenza, quella che a metà gennaio tutti gli appassionati dello sci alpino attendono come l’evento dell’anno. La piccola località tirolese si anima di una moltitudine di lingue, colori, danze popolari e immancabilmente di birra. Tutti nel segno di una passione comune, una passione senza senso, illogica.
Non è facile esprimere i miei pensieri sulla Streif senza rischiare di cadere nella banalità: qualsiasi appassionato conosce i pericoli della Mausefalle (“Trappola per topi”), il sottile margine con cui puoi inserirti nell’Hausberg e quanto sia dannatamente difficile sopra i cento chilometri orari tenere le lamine degli sci attaccate al manto ghiacciato, anche dopo due minuti di gara, anche nella contropendenza che precede l’ultimo salto di quasi ottanta metri poco prima dell’arrivo.
Così come qualsiasi appassionato sa bene che la sicurezza ha fatto balzi da gigante e che fino a qualche anno fa l’airbag era un sogno d’una notte di mezzo inverno, per semi-citare uno scrittore inglese discretamente bravo.
Nonostante tutti i miglioramenti possibili, il rischio zero non esiste. Soprattutto sulla Streif. Di incidenti ne abbiamo visti tanti e continueremo a vederli: più violenti, meno violenti, raccapriccianti o no. Tuttavia, le cadute banali a Kitz non esistono.
Viene, però, inevitabilmente da chiedersi perché una tale carneficina sia così attrattiva per atleti e tifosi. Nessuno è obbligato a scendere le pendenze della Streif e nessuno è obbligato a vederla, eppure quella pista emana un’attrazione quasi soprannaturale sul mondo dello sci. Sono i gladiatori nell’arena, la neve è la belva feroce dietro la gabbia che si sta per alzare: lo stato d’animo non è certamente paragonabile, ma anche su quella maledetta pista, senza una preparazione mentale e fisica adeguata, vai molto vicino alla morte.
Ne sa qualcosa Hans Grugger, che, se fosse arrivato in ospedale dieci minuti più tardi, non ce l’avrebbe fatta e per giorni ha lottato tra questo mondo e l’altro. Lo schiavo nell’arena era obbligato: questi moderni gladiatori scelgono di buttarsi.
Andando indietro nel tempo fino al 1982, credo che sia emblematica la dichiarazione fatta da Bernhard Flaschberger, direttamente dal letto dell’ospedale in cui era ricoverato dopo una bruttissima caduta sull’Hahnenkamm (la montagna che ospita la pista).
Qualche giorno dopo l’incidente, un giornalista gli chiese se il rischio che si era preso valeva la pena che stava passando:
“Kitzbühel vale sempre la pena per un discesista. La sensazione che provi in cima prima di partire… Niente è paragonabile. Non voglio smettere di scendere da lì: lo vorrò sempre fare”.
Al contempo, è assolutamente razionale pensare che sia una follia e che questa gara, che viene disputata dal 1937 e possiede tratti con l’85% di pendenza massima debba essere abolita dai calendari. Le parole di Bernhard, però, ci mostrano che esistono persone in questo mondo che non solo non la pensano così, ma fanno della ricerca del limite e dell’adrenalina la loro ragione di vita.
E in fondo dobbiamo ammettere che questa follia un po’ ci piace: a qualcuno per invidia, a qualcuno per provare almeno una minuscola parte di quell’energia che è duplice. Un attimo prima ti porta sulle nuvole, l’attimo dopo nel buio. Ma ne è valsa la pena. Forse.