“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”.
Parole entrate nella Storia dello Sport, una semplice battuta che un qualsiasi amatore avrebbe potuto dire a un altro suo pari, davanti a una birra ghiacciata, nel bel mezzo dell’uscita domenicale. Eppure, pronunciata da quel romagnolo che si toglieva anche il piercing dal naso pur di essere più leggero, questa frase diventa mitologia, epica. Un’epica però nazionale, paragonabile forse solo a quella di Nevio nell’Antica Roma, perché non racconta fatti leggendari, bensì storia, eventi vicini a noi nel tempo, nei luoghi e nei sentimenti.
1998: ringhia il Pirata, il bimbo risponde.
Marco Pantani è stato questo: una leggenda reale, un collante nazionale. Ma soprattutto, è stato l’ultimo ciclista a riuscire nell’impresa di vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno. Il 4 giugno del 1998 arrivò il sigillo sulla Corsa rosa, decisa alla diciannovesima tappa sull’arrivo di Plan di Montecampione, mentre il 27 luglio, nel diluvio francese, il Pirata staccò tutti sul Col du Galibier, rifilando 8 minuti e 57 secondi alla Maglia gialla Ullrich, che alla partenza conservava 3 minuti e un secondo su Pantani, quarto in classifica. Marco quell’anno non avrebbe neanche dovuto fare il Tour, ma la morte di Luciano Pezzi, che per il Pirata era molto più che un semplice riferimento ciclistico all’interno della Mercatone Uno, lo convinse che quel Tour non solo andava fatto, ma andava anche vinto. Veni, vidi, vici.
Poco meno di due mesi dopo, a 25 chilometri a nord rispetto alla capitale Lubiana, in un piccolo paese di 5000 abitanti di nome Komenda, probabilmente destato dal ruggito del Pirata sul Galibier, nacque un Bimbo. Tadej, Taddeo all’italiana, venne al mondo nello stesso anno in cui Marco Pantani sigillò la doppietta Giro-Tour, un segno del destino; perché, se esiste oggi un corridore in grado di riproporre una simile impresa, quell’atleta si chiama Tadej Pogačar.
Il bimbo cresce. E corre.
Pikachù, come l’ha teneramente soprannominato Riccardo Magrini (telecronista per Eurosport e co-autore con Luca Gregorio di un volume romantico sugli scalatori di questo Sport, Vicini alle nuvole, edito da Hoepli), è passato al professionismo nel 2019 con la divisa della UAE Team Emirates e fin da subito ha dimostrato che tutti gli splendidi risultati ottenuti nelle categorie giovanili non erano altro che il preludio di una carriera già oggi, dopo soli quattro anni, pazzesca. Primo al Giro dell’Algarve, tappa al Giro di California, terzo gradino del podio alla sua prima Vuelta a Espana. Poi non si è più fermato: vittoria al Tour del 2020 con quella straordinaria cronometro conclusiva con arrivo a La Plance des belles filles, nella quale distrusse il connazionale Roglič, guadagnando due secondi per ogni chilometro percorso. Pagine di storia indimenticabili.
Ingiocabile al Tour 2021: dopo appena otto tappe il secondo in classifica, Uran, è a 4 minuti e 46 secondi. Sui Campi Elisi, Vingegaard (che occupava il secondo gradino del podio) dista 5 minuti e venti secondi; Uran, terminato al decimo posto, è a 18 minuti e mezzo. Il ventesimo (Mollema) ha più un’ora di margine.
In quell’anno Tadej vinse anche il UAE Tour, la Tirreno-Adratico, la Liegi-Bastogne-Liegi, il Giro di Slovenia, il Bronzo alle Olimpiadi di Tokyo e, pochi giorni dopo aver spento le 23 candeline, il Lombardia. Non male.
Nel 2022 è arrivato uno dei primi segnali di umanità: forse un eccesso di sicurezza nei propri mezzi, certamente un’alimentazione scorretta nel corso dell’undicesima tappa (Albertville-Col du Granon). Sull’ultima ascesa è il danese Vingegaard a lasciare sul posto per la prima volta uno stremato Pogačar e la Maglia gialla passa definitivamente dalle spalle dello sloveno a quelle dell’ormai capitano della Jumbo Visma (con Roglič caduto e ormai fuori dai giochi). L’oggi è tutto da scrivere, ma il 2023 di Pikachu era iniziato alla grande con la vittoria della Vuelta a Andalucia e della Parigi-Nizza. Poi il primo posto al Giro delle Fiandre, all’Amstel Gold Race e alla Freccia Vallone, prima di incappare nella caduta nei primissimi chilometri della Liegi-Bastogne-Liegi ad aprile che gli causò la frattura scomposta dello scafoide. Tuttavia sembra che a questo Tour sia arrivato comunque in discreta forma, ma incrociamo le dita che è meglio.
Pogačar non è un ciclista: è il ciclismo
Come mi è già capitato di sottolineare, nel ciclismo la nazionalità è qualcosa di marginale. Magari a volte si tifa per una squadra (nel mio caso per la Bahrain Victorious), per un corridore, ma difficilmente lo si tifa solo perché italiano. È vero, però, che affermare questo in termini così generali lascia lo spazio che trova: Pantani e Nibali sono due casi recenti che contraddicono il mio pensiero, così come io stesso difficilmente non proverò simpatia per Ciccone, Bettiol o Ganna nel momento in cui si giocheranno il primo posto in una corsa. Ma con lo stesso identico sentimento ho fatto il tifo per Roglič sul Lussari, per Evenepoel, per Pinot. E per Pogačar, soprattutto per Pogačar. E proprio perché mi emoziona così tanto vedere quel Bimbo sloveno correre sulle strade, ho cercato di scavare sul fondale: per quale ragione Tadej – più di tutti gli altri – mi piace e mi regala emozioni?
In Vicini alle nuvole Luca Gregorio, anche lui voce di Eurosport, lo descrive così:
“Ciò che colpisce di più in Tadej Pogačar è la semplicità con cui corre in bicicletta. Diverte e si diverte. Non accusa la pressione, almeno sembra. Ha sempre un sorriso per tutti, disponibile e generoso. Uomo-squadra, leader pacifico e ragazzo della porta accanto”.
Le parole di Gregorio sono una magnifica fotografia della figura di Pogi. Ma per andare oltre la superficie, è necessario rendere questa foto una scultura a tutto tondo.
La sua semplicità si esprime in tutto quello che fa e che è. Nel modo di portare il casco, con quelle grandi ciocche di capelli che gli spuntano ribelli dalle piccole aperture. Quei capelli che “dentro tranquilli” semplicemente non ci vogliono stare, come ammette candidamente lui stesso, quasi mortificato quando due truccatrici durante uno shooting cercano inutilmente di farli stare al loro posto e alla fine rinunciano (una delle tante chicche lette su bicipro.it). Una bella metafora di Tadej, non travate?
È semplice nel modo in cui sa stare nel gruppo: tutti lo apprezzano e rispettano, non ha paura di stare nella pancia del plotone perché sa che all’occorrenza tutti faranno di tutto per dargli una mano. Eppure, non è sconsideratezza, perché nei momenti che contano la ruota di Vingegaard (o comunque del diretto rivale) la trova sempre.
La semplicità, ancora, si esprime in quello splendido sorriso che mostra sempre, pure quando la fatica si fa sentire imperiosa. Quando la gamba brucia al massimo grado di intensità, sembra quasi che il suo volto sia stato progettato per ridere di fronte alle difficoltà, con gli estremi della bocca che sempre e comunque tendono all’insù, congelando un sorriso che è contagioso. Soffre ed è felice. L’incarnazione del Ciclismo.
E anche la sua eterna positività inonda tutto e tutti, oltrepassando i confini dello schermo e arrivando anche a chi lo guarda da casa: di solito in un grande giro si cerca di risparmiare più energie possibili e quindi di ottenere il massimo risultato con il minore sforzo; invece Pogi no, lui è diverso. Un amico mi ha detto: “Lui non calcola, fa. Come un amatore senza ciclo-computer”. Pogačar ovviamente il ciclo-computer lo possiede e in un Ciclismo così scientifico siamo sicuri lo guardi pure, tuttavia sembra davvero che a volte non gli interessi. Non ha alcun senso per lui andare a fare la volata, spingere al massimo i duri rapporti della sua Colnago e prendersi una piazza d’onore che magari, con fuga già arrivata, è per il ventesimo posto. Ma lo fa comunque, e lo fa ridendo, perché prima di tutto è e rimane per lui la cosa più bella del mondo, un gioco.
La semplicità sta anche nel modo – intelligente – in cui usa i social: sempre di buon umore, si presta a tutti gli scherzi che gli propongono, si fa filmare mentre torna in albergo con una baguette nel taschino dietro, pronuncia alla perfezione “croissant” diventando un meme sulla rete per l’ennesima volta, ha il suo saluto personalizzato con il rivale per eccellenza Jonas (il doppio pugnetto che si vede in qualche video), i video rap in sloveno. Ciò a cui voglio arrivare, e molto devo all’amico di prima che mi ha suggerito questo spunto, è che Tadej Pogačar è un professionista che si comporta da persona comune, semplice. Attenzione però: semplice non significa banale, mai.
La semplicità di Tadej Pogačar: un’ispirazione nel ciclismo
Pogi incarna nel mondo brutale, assassino e deleterio del professionismo sportivo la figura dell’Amatore nella sua purezza, umano che ama ciò che fa incondizionatamente, per divertirsi, senza l’ansia della prestazione, con il solo scopo di realizzare il bene ultimo a cui tende da sempre, la felicità. Il fatto che Tadej dimostri questo è l’elemento fondamentale che rende possibile l’identificazione del nostro Io sportivo in lui: lo sentiamo quanto mai vicino, più vicino di un Pinot sbruffone, di un Vingegaard assistito dalla più forte squadra mai vista negli ultimi tempi o di un Wout Van Aert che sembra più una macchina che un umano, e perciò qualcosa di inarrivabile.
Insomma, ognuno di noi nel nostro piccolo mondo prova ogni giorno ad essere sempre un po’ di più Tadej Pogačar.