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Lettera anonima

Ieri è morto il più grande telecronista di tutti i tempi. Si chiamava Sergio Matteucci.

E ha segnato la vita, le aspettative, i pomeriggi di un’intera generazione.

Che si emozionava di fronte ad un campo in salita, una catapulta infernale, un dribbling aereo ed una
palla che se colpita forte poteva diventare ovale o o illuminarsi.

Holly, Benji, Mark, Julian, devono anche a lui l’ingresso nelle case di un popolo di ragazzi malati di uno sport sempre più diverso da allora.

Tra questi ragazzi ci sono io.

Sono nato nel 1982 a Roma, giocavo a pallacanestro, nuotavo, ho trovato la mia strada giovanile nel calcio.

Andavo regolarmente allo stadio, al palazzo dello sport, ascoltavo tutto il calcio minuto per minuto, aspettavo il collegamento dal campo più importante tra Alfredo Provenzali e Sandro Ciotti, guardavo Teleroma 56 e GBR sorridendo e patendo con Lamberto Giorgi e Monica Leoffredi.

Sono figlio della generazione di Bruno Pizzul, Gianni Ceraueti e Carlo Nesti, del calcio sulla Rai e dei servizi su Novantesimo Minuto, degli approfondimenti di Domenica Sprint e delle sentenze della Domenica Sportiva.

Una generazione che sognava la Coppa dei Campioni, quelli che la potevano giocare perché Campioni.

Una generazione che vedeva nella Coppa delle Coppe uno speciale premio per una meravigliosa coccarda e la Coppa UEFA non la serie B d’Europa ma la rivendicazione di diritto e di uguaglianza per chi non è riuscito a vincere nella stagione precedente.

Ho iniziato ad amare il calcio senza anticipo e non posticipando, attendendolo come un momento liturgico, di comunione, d’insieme.

L’ho amato sul campo e l’ho sognato fuori.

Uno sport che muoveva interessi, che veniva vissuto con interesse, che si interessava di chi lo viveva.

Vengo dal calcio della gente, del chiasso, della partecipazione, del litigio e dello sfottò. Il calcio come aggregazione a prescindere, senza élite, senza valutazione sintetica ma che prende origine dalla terra.

Il calcio come movimento di rivendicazione e strumentalizzazione popolare dove la folla ti identificava e ti aiutava ad identificarsi.

Il calcio come fenomeno sociale che parte dalla passione della gente e non come obiettivo di massificazione.

La mia è la generazione degli ultimi, di quelli che credono ancora che il romanticismo applicato allo Sport lo possa salvare a prescindere, possa salvarsi da una deriva televisiva ed esclusivamente mirata “a ciò che si vuole vedere”.

Un romanticismo fondato su passione, rispetto delle regole e del gruppo, responsabilità per l’impegno, sudore, condivisione.

Una generazione che ha subito il cambiamento e che si è vista cambiare l’impostazione culturale senza se e senza ma.

Una generazione abbagliata dalla visione globale e da troppe telecamere.
Una generazione però che sa che il Calcio va giocato e visto, dal vivo.
Mischiando esperienze, emozioni, odori, fallimenti e vittorie.

Mai da soli però.

Perché stringersi, confrontarsi, ridere, piangere, discutere ci aiuterà a guardare il mondo in modo migliore, guardandolo per strada, toccandolo e non solo affacciati alla finestra, respirandolo.

Articolo scritto da Matteo Schiavone

Maturità scientifica, centrocampista non sufficientemente abile per fare il professionista con continuità, laureato in Scienze Motorie e specializzato in Management dello sport, Allenatore di Calcio e Calcio a 5 (Futsal ci piace di più) dal 2007, appassionato di Storia, Musica e Cinema con scarse attitudini allo studio ma spiccate inclinazioni alla curiosità.

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