Anche se la civiltà greca è nota per le sue connotazioni misogine piuttosto che tolleranti nei confronti della donna, in realtà questa può considerarsi ormai una prospettiva un po’ incartapecorita, avvolta in un alone che ha voluto più preservare e tramandare un’ideologia di inferiorità che circonda la figura della donna, ma non esigue fonti ci raccontano il contrario.
In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, sembra giusto ricordare come la storia della sua “emancipazione” sia iniziata agli albori della civiltà e, addirittura, anche nel mondo dello sport.
I Greci trovavano nel mito uno specchio in cui riflettere sé stessi e il proprio pensiero. Chissà se erano consapevoli che quei racconti, quelle tradizioni e quelle morali avrebbero deliziato e istruito i posteri fino al XXI secolo. E nel mito, poi nella storia e nella letteratura greca, incontriamo già eroine che si impongono per la propria libertà, per la propria indipendenza ed anche per il proprio vigore fisico.
Una di queste era Atalanta, un’abile corritrice devota alla dea Artemide e dunque decisa a restare vergine, lontana dal matrimonio, negli amati boschi in cui era cresciuta. Atalanta, infatti, abbandonata alla nascita, non gradita ad un padre deluso di non aver avuto un figlio maschio, sopravvive all’esposizione sul Monte Parthenion grazie ad un’orsa che l’allatta e viene salvata da cacciatori che la adottano e la istruiscono nell’arte della caccia.
Cresciuta tra i boschi a suon di corse e libertà, a cui non avrebbe mai rinunciato, rifiuta il matrimonio anche per via di un oracolo secondo cui si sarebbe trasformata in animale qualora si fosse sposata. A chi la chiedeva in moglie, dunque, Atalanta, consapevole della sua innata velocità, proponeva una gara in cui se il pretendente avesse vinto l’avrebbe sposata, al contrario, sarebbe stato ucciso da lei. Confermandosi sempre vincitrice, tuttavia, arriva il giorno in cui Atalanta viene battuta.
Accade per opera di Ippomene che, su consiglio della dea dell’amore, Afrodite, escogita un piano. Durante la corsa, il giovane faceva cadere pomi d’oro che Atalanta si apprestava a raccogliere e fu così che vinse e i due si sposarono. La vicenda di Atalanta non rappresenta altro che l’albore di una storia dello sport che vede le donne coinvolte da sempre. Se il mito contiene e conserva un riflesso della società del tempo, possiamo ben dire che la corsa, l’educazione fisica, la pratica sportiva, faceva parte della vita delle donne.
E ancor di più, nelle fonti la corsa veniva messa in relazione a un momento importantissimo nella loro vita: il matrimonio.
Sparta, Atene e Olimpia ci consegnano delicate e affascinanti testimonianze di come la corsa rappresentasse un rito iniziatico, di passaggio dall’età di bambina a quello della pubertà e dunque al periodo del matrimonio.
Ce lo canta Teocrito nell’Idillio XVIII, Epitalamio di Elena, di come ogni anno a Sparta si svolgeva una corsa in onore di Elena, a cui le ragazze si ispiravano come modello, e l’obiettivo era quello di compiere la corsa per marcare il passaggio dalla condizione di nubile a quello di donna sposata.
Ancora, per celebrare questo passaggio (età da bambina – pubertà – età da marito), le ragazze correvano ad Atene durate gli Arkteia (da árktos=orsa), feste in onore di Artemide, durante le quali, come si evince da reperimenti vascolari, o completamente nude o con abiti lunghi, con capelli corti o capelli sciolti riproducevano uno stato di “selvatichezza” tipica dell’orsa cara ad Artemide, per celebrare lo svezzamento in una corsa rituale.
Ed è da Olimpia che giunge l’ultimo esempio – di quelli finora noti – di gare da corsa prematrimoniali. L’unico a parlarne è lo storico Pausania che, nei libri V e VI della Periegesi della Grecia, dedicati ad Elide e Olimpia, completamente rapito dal museo a cielo aperto che gli si palesa davanti percorrendo lo stadio di Olimpia, le sue statue, i templi di Zeus ed Era, non manca di rivolgere e riservare ripetutamente la sua attenzione anche alle donne. Pausania (II secolo d.C.) sembra scevro, infatti, di quella indifferenza nei confronti della figura femminile che ha contaminato parte della tradizione inerente la donna nel corso dei secoli. Anche se si tratta di un unicum, menziona gli Heraia, gare di corsa in onore della dea Era, che si tenevano ad Olimpia, probabilmente dopo o in concomitanza con le Olimpiadi vere e proprie. Vi erano 16 Donne in qualità di giudici di gara e vi partecipavano ragazze nubili provenienti da tutta l’Elide. Il premio equivaleva a quello delle gare maschili, una corona d’ulivo, una porzione della giovenca sacrificata ad Era e ritratti da farsi dedicare.
Questo è il ventre in cui la storia della donna nel mondo dello sport inizia la sua gestazione, lunga ma con il tempo sempre più forte e decisa. Certo è che dall’alone mitico che aleggia sulle tradizioni più antiche, a mano a mano che si va avanti con i secoli le figure diventano più nitide e coinvolte nella scrittura di un nuovo pezzo di storia.
È così che ricordiamo Callipatera, sempre menzionata dal nostro Pausania, come prima e unica donna che ha sfidato la ferrea legge olimpica che vietava l’ingresso e la partecipazione delle donne agli agoni, pena la precipitazione dal Monte Tipeo. Ma Callipatera, nelle cui vene scorreva il sangue di una famiglia di vincitori, allena il figlio Pisidoro, e per assistere alla sua prestazione alle Olimpiadi si traveste da uomo. Al momento della vittoria di Pisidoro e dell’esultazione, quando scavalca i recinti in cui venivano confinati i maestri di atletica, resta nuda e viene scoperta. Tuttavia, per via dell’appartenenza ad una famiglia di vincitori olimpici non viene punita ma da quel momento entrò in vigore una nuova legge, l’obbligo per gli allenatori di entrare interamente nudi nei campi.
E a proposito di Olimpiadi, a proposito di donne, come non menzionare la prima donna che vinse proprio alle Olimpiadi? Si tratta di Cinisca, figlia del re di Sparta, Archidamo II, vincitrice per ben due volte: nel 396 a.C. e nel 392 a.C.
Cinisca, Belistiche, Berenice II, tutte vincitrici olimpiche, sono le donne che hanno iniziato a incidere la storia della partecipazione della donna nello sport. A piccoli passi, per molto tempo impercettibili, passate sotto silenzio, le loro imprese trovano oggi voce in una rilettura, in un’eco che suona come bisogno, a volte disperato, di restituire loro qualcosa che è stato tolto, come il riconoscimento di essersi ritagliate un posto nel mondo da sempre.
Se è vero che abbiamo bisogno del passato per non perderci, allora forse dovremmo essere anche più curiosi e gentili nei confronti di una storia che, per quanto distante, ancora ha molto da dire e da insegnarci.