La storia dell’alpinismo è una di quelle che più amo.
Un po’ certamente perché la montagna è il mio habitat naturale, un po’ perché sento che l’atto della scalata sia tra i più adatti al racconto sportivo. Ci sono alcuni sport dove è difficile e a volte addirittura disgustosamente retorico e artificioso costruire un’epica o uno storytelling che risulti avvincente; per l’alpinismo invece, proprio per una sua intrinseca natura epica, è sufficiente raccontare.
Mentre alcune storie sono nel tempo arrivate all’occhio o all’orecchio del grande pubblico, come ad esempio quelle dei fratelli Messner, di Bonatti, o – parlando di contemporaneità – di Barmasse, esistono ancora orizzonti poco esplorati nella storia dell’alpinismo. Orizzonti che si affacciano inevitabilmente alla Storia con la S maiuscola, quella vera, con le guerre e la politica; insomma, cose molto più serie dello sport. Che anche lì, se ne potrebbe discutere. Ma vabbè.
Siamo in Germania Est, dopo la Seconda guerra mondiale. Con la costruzione del muro di Berlino (1961) qualsiasi sogno di un viaggio in Occidente poteva tranquillamente essere riposto nel cassetto. Impossibile muoversi verso Ovest. La Deutsche Demokratische Republik (DDR) non possiede alcuna montagna sopra i 2000 metri di quota, il che rappresentava un chiaro problema per la folta schiera di alpinisti che dovevano soddisfare la propria brama di roccia da scalare.
Una piccola gioia per questi uomini si trovava nella Svizzera sassone dove si innalzano gli Elbsandsteingebirge, spuntoni rocciosi in arenaria che lasciano a bocca aperta per la loro bellezza.
Ma come sappiamo, la natura umana porta l’uomo a spingersi sempre più in alto e dal momento che l’Occidente era come se non esistesse, i tedeschi dell’Est iniziarono a guardare al blocco orientale, dove l’Unione Sovietica offriva cime ben più alte, anche oltre i 7000 metri.
L’alpinismo organizzato
Una volta terminato il secondo conflitto mondiale, l’alpinismo non fu mai espressamente vietato in Germania, ma non figurava nemmeno nella Berliner Liste degli sport ammessi. Certamente il ricordo dei Gebirgsjäger della Wehrmacht (la fanteria leggera delle truppe da montagna) e la conquista nazista dell’Elbrus (la vetta più alta del Caucaso con i suoi 5642 metri) nel 1942 non aiutò l’alpinismo tedesco ad essere visto di buon occhio.
Nella Germania socialista erano nate diverse istituzioni che regolamentavano e rendevano possibile l’attività sportiva, ma queste non sostituirono mai per davvero i più antichi club alpini. Il giornalista sportivo Horst Mempel, scomparso nel 2022, in una conversazione con Kai Reinhart avvenuta nel 2004 ricorda che
“i club alpini venivano tollerati solo perché nessuno era riuscito a distruggerli; tutti si erano associati a qualche BSG (Betriebssportgemeinschaften, comunità sportive legate a singole fabbriche, n.d.r.), ma in realtà erano rimasti i club di un tempo”.
In ogni caso l’importanza crescente della scalata e della conquista delle montagne sotto un punto di vista politico portò anche la DDR a fondare una nazionale di alpinismo. Essa affondava le proprie radici nella città di Dresda: nel 1958 dieci scalatori selezionati all’interno della Dynamo Dresda conquistarono entrambe le cime dell’Elbrus; nel 1960 nella Einheit di Dresda nacque una sezione agonistica guidata dall’allenatore Alfred Barth. Questo progetto portò a due prestigiosi risultati negli anni a venire, ovvero la scalata del Picco Lenin (7134 m) nel 1967 e del Picco del Comunismo (7495 m) nel 1972, entrambe vette situate nella regione del Pamir (tra Tagikistan, Afghanistan, Cina e Kirghizistan).
Ovviamente le occasioni di viaggio nel blocco sovietico erano poche e sottostavano a regole rigide e costi alti. Tutto ciò non fece altro che accrescere il numero di avventurieri che partivano per spedizioni private e, nella stragrande maggioranza dei casi, clandestine.
L’alpinismo privato e clandestino
Anche se gli alpinisti riuscivano a superare tutti gli ostacoli burocratici, non era possibile muoversi liberamente nell’Unione Sovietica. I motivi erano diversi: alcune città erano proibite, come Sebastopoli in Crimea; in altri casi erano i sovietici che non volevano mostrare ai turisti alcune facce della loro nazione. Perciò chi viaggiava regolarmente in Unione Sovietica vedeva solo la faccia illuminata della Luna, mai quella opposta.
Tenendo ben presente che il professionismo sportivo era severamente vietato all’epoca, questi avventurieri clandestini dovevano trovare il modo di allenarsi e guadagnare per vivere, e procurarsi l’attrezzatura necessaria ai loro viaggi.
Molti iniziarono a guadagnare arrampicandosi sui palazzi per effettuare riparazioni e demolizioni, facendo risparmiare così il tempo e il denaro destinati ai ponteggi. Altri si trasferivano nella Svizzera sassone occupandosi di lavoretti che fungevano più che altro da alibi (il custode al cimitero, il portiere condominiale, l’operaio in fabbrica).
Per quanto riguardava l’attrezzatura, il materiale tecnico non era di facile reperimento nella DDR; perciò, chi poteva, si faceva spedire materiali dall’Occidente (in casi rarissimi) e dalla Cecoslovacchia; nella maggior parte dei casi, invece, l’attrezzatura era prodotta in casa: sacchi a pelo, ramponi, piccozze e mappe venivano commissionati ad amici e conoscenti.
L’avventura di Hartmut Beil
“I miei settemila furono la Crimea”: così si concluse un colloquio del 2010 tra Hartmut Beil (un non più giovanissimo berlinese) e Cornelia Klauss, co-autrice con Frank Böttcher di un volume dedicato proprio a questo mondo (pubblicato in Italia da Keller, Alpinisti illegali in URSS. Viaggiare controvento). Le parole di Hartmut riassumono al meglio il desiderio di avventura di questi giovani tedeschi che partivano con conoscenze ridottissime della direzione e della meta: “Sul mio atlante scolastico sembrava tutto molto emozionante”.
Viaggiando verso il Pamir, Hartmut capì che la realtà non corrispondeva alla facilità di una mappa poco precisa delle scuole. Neanche arrivato sul Mar Nero, che in ogni caso non è proprio a due passi da Berlino, dovette rinunciare al suo obiettivo. I sovietici non erano molto propensi a lasciar proseguire un cittadino tedesco verso il Pamir; avevano molta più confidenza con chi chiedeva di tornare a casa.
Nella vastità di quei territori, la diversità delle genti e dei costumi impressiona e affascina, e ci porta a riflettere su quanto sia limitata la nostra visione del mondo. Non è una colpa, ma semplicemente un invito spontaneo all’essere curiosi.