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Alain Mimoun: una vita lunga 42 chilometri

L’oro olimpico che morì a Montecassino e rinacque a Melbourne

Alain correva, ed era felice. Sapeva bene che quel movimento ritmato era più simile a un miracolo che non a un fatto naturale: aveva rischiato di perdere tutto, nella sua vita precedente. Sì, perché Alain Mimoun visse due volte.

La Maratona olimpica aveva preso il via in una torrida mattinata australiana. Alain all’epoca aveva trentasei anni, era piuttosto basso, con la pelle mulatta e i baffi che incombevano sulla bocca, correva in quel gruppetto che via via si assottigliava sempre più, ed era felice. Il giorno prima era stato fermato sulla porta dell’hotel da un receptionist: «Signor Mimoun, c’è un telegramma per lei».

Alain attendeva da giorni quella notizia e la tensione per l’imminente partenza dei 42.195 metri svanì per lasciare il posto a un misto di emozioni che sarebbe stato in grado di descrivere solo alcuni giorni dopo quel primo dicembre del 1956. Il volto era segnato da un sorriso incontenibile, ma negli occhi si intravedeva anche un certo grado di timore: la paura che la notizia potesse non essere quella tanto attesa.

“Moglie e figlia stanno benissimo”. Che sollievo!

Alain correva, ed era felice. Dopo quindici chilometri, si ritrovò spalla a spalla con Emil. I due campioni si scambiarono uno sguardo e Alain capì che l’era di Emil Zatopek era ormai prossima al capolinea. E questa non è certo una metafora casuale: tutti nel mondo conoscevano Emil come la locomotiva umana, un’immagine che ritraeva in modo esemplare lo stile di corsa del ceco: all’apice dello sforzo, Emil “sbuffava”, muoveva il suo corpo in una maniera completamente sgraziata, senza curare minimamente l’aspetto estetico. La testa si piegava sulla spalla, la bocca contratta e i denti serrati gli coloravano il volto, gli occhi si stringevano nello sforzo, lasciando giusto uno spazio per scorgere la direzione in cui stava procedendo. Emil con il suo stile unico aveva vinto tutto quello a cui un fondista poteva ambire ed era arrivato a Melbourne con la fama di uno dei più grandi atleti di sempre.

A Helsinki, quattro anni prima, aveva vinto i 10.000 metri, i 5.000 e la maratona nel giro di pochi giorni. Molte volte, sul secondo gradino del podio ci era finito lui: Alain. L’amicizia che si era creata tra i due era un rapporto straordinario, perché solo qualcuno con alle spalle la giovinezza di Mimoun poteva scegliere di stringere un legame così denso con il suo più grande rivale.

Schade, Mimoun e Zatopek nella finale dei 5.000 m dell’Olimpiade di Helsinki, sullo sfondo la caduta di Chataway
Schade, Mimoun e Zatopek nella finale dei 5.000 m dell’Olimpiade di Helsinki, sullo sfondo la caduta di Chataway

In mezzo al gruppo e alla gara, anche Emil guardò Alain negli occhi per un istante. Il suo sguardo, però, tornò subito a vagare nel vuoto. Era la conferma: il fuoco di Zatopek si stava spegnendo. Il campione ceco scivolò indietro, mentre Alain manteneva il passo, sicuro che le proprie gambe quel giorno avrebbero superato qualsiasi ostacolo. Quelle gambe che erano lì per miracolo. Sì, perché a pochissimi è concesso il privilegio di vivere due volte.

La prima vita di Ali Mimoun Ould Kacha, nato in Algeria il primo gennaio del 1921, ebbe fine verso gli ultimi giorni di gennaio del 1944. Attorno all’altura sulla quale sorge l’abbazia di Montecassino si scatenò una delle battaglie più sanguinose della Seconda Guerra Mondiale: per giorni i bombardamenti, i mitragliatori e le mine estinsero migliaia di sogni e di speranze. Figli costretti a crescere senza un padre, padri costretti a vivere la morte di un figlio. Che crediate o meno all’esistenza dello spirito, in quei terribili giorni 75.000 anime vennero mutilate. Alcune a morte, altre vennero risparmiate. Alain, che si era arruolato nell’esercito francese, fu ritrovato da alcuni americani sul retro di un camion con una gamba a pezzi, ridotta letteralmente a brandelli: c’erano sangue e schegge ovunque; di pelle n’era rimasta poca, e quella che ancora c’era non era al proprio posto; tutto il suo corpo era coperto da terra secca e polvere.

Per venticinque giorni rimase a letto in preda a dolori lancinanti perché una maledetta scheggia era ancora dentro la gamba e continuava a muoversi nel suo corpo: era l’inferno, o per lo meno gli si avvicinava parecchio. I medici americani che lo avevano tratto in salvo avevano deciso di amputare, ma Alain si oppose a questa risoluzione con tutte le energie che gli erano rimaste. Alain era vivo, ma in quei giorni, almeno una volta, pensò che forse sarebbe stato meglio morire: così provò ad aggrapparsi a un sogno.

Quel desiderio, per Mimoun, era tornare a correre. Alla fine, fu un medico francese a salvargli la gamba, e molto probabilmente anche la vita. In ogni caso, la guerra per Ali non terminò in Italia: fu trasferito sul fronte franco-tedesco, sulle montagne dei Vosgi, e contribuì fino in fondo al destino del mondo.

Bombardamento Abbazia di Montecassino_Biblioteche Monastiche

Per questo, ora che era a Melbourne, ora che si giocava un’altra medaglia olimpica, ora che aveva una figlia, correva ed era felice. Quando anche l’ultimo avversario si staccò e si accorse che era finalmente solo, Alain era in crisi. Iniziò a ricordare sua madre, in Algeria: Ali, perché così si chiamava prima di convertirsi al cattolicesimo, era il settimo figlio in una tipica famiglia berbera di contadini. Sua madre era analfabeta e molto orgogliosa di lui, che andava bene a scuola e sognava di fare il maestro. Certamente anche lei, nelle calde notti algerine, sorrideva a occhi chiusi sognando il proprio figlio adulto in piedi di fronte a una classe. Perché solo provando sulla nostra pelle l’assenza, possiamo comprendere il valore reale delle cose belle: riuscite a immaginare la gioia di una madre che non è mai andata a scuola e che vede il proprio figlio leggere e scrivere?

Purtroppo, la borsa di studio che doveva garantirgli il tempo necessario a diventare maestro non gli fu accordata. Terminate le scuole elementari, dovette lasciare gli studi: fu allora che decise di partire. Attraversò il Mediterraneo alla volta della Francia e fino ai quattordici anni lavorò come muratore; poi arrivò finalmente un piccolo colpo di fortuna: iniziò a lavorare in un negozio di ferramenta dove il proprietario cercò di aiutarlo e lo prese sotto la sua ala. Sfortunatamente, era già il 1935 e di lì a poco l’Europa non sarebbe più stata la stessa.

Alain vedeva finalmente il Marathon Gate: quando varcò il tunnel, lo stadio esplose in un boato che accompagnò Mimoun per tutti gli ultimi quattrocento metri e oltre. Alain Mimoun era campione olimpico, ma istintivamente il suo primo gesto dopo aver superato il traguardo fu quello di girarsi e aspettare. Quando arrivò anche Emil dopo qualche minuto, Alain era lì ad attenderlo.

«Hai visto, Emil? Ce l’ho fatta!»

Il volto di Emil Zatopek, stremato, si accese.

«Bravo Alain! Sono così felice per te».

Lo abbracciò e gli diede un bacio sulla guancia.

«Emil –­­ aggiunse il francese – ho una figlia».

Il campione ceco lo abbracciò di nuovo e rimasero a lungo così.

Finalmente, dopo tanti secondi posti, l’ombra di Zatopek diventava il suo sole, il primo vagone superava la locomotiva, ma la loro amicizia aveva radici forti e andava ben oltre la corsa, perché quei due uomini erano creature speciali: a pochissimi è concesso il privilegio di vivere due volte.

Articolo scritto da Luca Dalla Marta

Al Liceo era un grande appassionato di sport, ma vedendo che il professionista proprio non riusciva a farlo, si è buttato sulla scrittura. Gli piace raccontare lo Sport immerso nella Storia, uno Sport nobile e lontano dalle chiacchiere da bar (anche se queste, lo ricorda sempre, sono il motore del professionismo).

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